di Domizia Dalia – pubblicato su COLLEZIONARE febbraio/marzo 2015
Dalle Hammond di fine Ottocento, passando per la M1 dell’Olivetti, senza dimenticare la celebre Lettera 22: Stefano Bertasi, collezionista di Macchine per scrivere ci racconta la storia di questo strumento illustrandoci gli esemplari più famosi
Le macchine per scrivere sono entrate nella vita di Stefano Bertasi fin da quando, piccolissimo, passava intere giornate nell’officina del padre che per mestiere le riparava. Da allora sono passati quarant’anni e Stefano, diventato programmatore informatico, da circa vent’anni si dedica alla ricerca di vecchi modelli ai quali è capace di ridare nuova vita restaurandoli con cura e studiandone i meccanismi più complessi. Macchina dopo macchina la raccolta è cresciuta fino a contare oltre duecento esemplari di cui molti davvero rari.
Stefano, la sua collezione ripercorre in qualche modo la storia della sua vita, ma anche quella delle macchine per scrivere, strumenti entrati gradualmente in ogni ufficio e in molte case. Cominciamo con la paternità: un brevetto attesta che questa invenzione è italiana…
Questa, per molti, è una vicenda ancora controversa, poiché anche in America, più o meno nello stesso periodo, comparvero delle macchine da scrivere simili al Cembalo Scrivano, primo esemplare di macchina per la scrittura, inventato e brevettato dall’avvocato novarese Giuseppe Ravizza nel 1855. Il boom, però, è arrivato solo qualche anno dopo e bisogna aspettare il 1870 per vedere proliferare in tutto il mondo aziende dedicate alla produzione di macchine per scrivere.
Come mai questa importante invenzione non ha avuto un riscontro immediato?
Forse perché ha anticipato troppo i tempi. In un primo momento non se ne intuivano le reali potenzialità e, per questo, veniva percepita come una creazione inutile.
Negli esemplari più antichi in suo possesso si notano forme completamente differenti nei modelli prodotti dalle diverse aziende… L’estetica in realtà è la diretta conseguenza del meccanismo. Dal 1870 fino al 1920, infatti, ogni azienda produceva un proprio cinematico di scrittura – ovvero l’insieme di componenti che permettevano di imprimere le lettere sul rullo – rigorosamente brevettato. Esistono, perciò, macchine con meccanismi totalmente diversi. Molti di essi erano a scrittura cieca e impedivano a chi scriveva di vedere. Per esempio battendo i tasti di una Hammond, con tastiera rotonda, le lettere s’imprimevano da dietro. Si può capire come queste diversità rendano, da un punto di vista collezionistico, le prime macchine da scrivere degli oggetti molto ricercati. Interessantissime anche per i loro soprannomi: la Williams detta “la cavalletta”, poiché le leve dei caratteri fanno lo stesso movimento delle gambe dell’insetto; e le macchine a scrittura laterale Oliver chiamate anche “orecchie d’asino” per la loro forma.
Negli anni Venti cosa è accaduto, come mai le macchine in un certo senso si sono omologate?
In quegli anni si era arrivato a capire che il sistema di scrittura visibile, quello frontale, era in assoluto il più funzionale poiché permetteva di vedere quello che si stava scrivendo.
Esistono altri sistemi di scrittura che sono rimasti più o meno invariati nel tempo?
Direi le macchine per l’alfabeto Braille. Si tratta di oggetti che avevano solamente sei tasti, quelli indispensabili per incidere direttamente sul foglio i fori che caratterizzano questo tipo di scrittura. Di queste, ne possiedo due: la Braille Picht del 1907 e la Braille Perkins del 1960.
Tra le diverse aziende italiane, l’Olivetti ha di sicuro rappresentato la numero uno sia per quanto riguarda la diffusione delle sue macchine sia per la loro qualità…
Sicuramente l’Olivetti è stata la più grande azienda “capace di trasformare il ferro in oro” come ancora oggi dicono i dipendenti che hanno avuto la fortuna di vivere questa realtà industriale. Le macchine per scrivere prodotte dalla nota azienda di Ivrea costituiscono una grande fetta della mia collezione.
Possiede anche la famosissima M1, la prima macchina prodotta dall’Olivetti?
Certamente, è il mio gingillo! Si tratta di una macchina molto rara, ne furono prodotte tra il 1911 e il 1919 solamente seimila esemplari destinati principalmente agli uffici statali. Inoltre quando misero in commercio il modello successivo, la M20 del 1917, l’Olivetti ha promosso una campagna di rottamazione che ha ulteriormente contribuito a diminuire il numero degli esemplari in circolazione.
Oltre a queste macchine per scrivere e alla famosa M40 prodotte dalla Olivetti, quali sono altri esemplari dell’azienda di Ivrea ricercati dai collezionisti?
Posso citare la famosa Lettera 22, macchina da scrivere portatile prodotta nel 1950 in cinque differenti colori, utilizzata anche dal giornalista Indro Montanelli e la Valentine, prima macchina economica realizzata in plastica – di colore rosso – progettata nel 1968 da Ettore Sottsass e Perry A. King. Entrambe queste macchine hanno vinto il prestigioso Compasso d’oro rispettivamente nel 1954 e nel 1970 e sono esposte al MoMa di New York.
Nella sua raccolta sono presenti anche molti altri modelli rari e pregiati… Una delle più particolari è la Lambert n.1, macchina francese del 1902. Molti inesperti la scambiano per un telefono data la sua forma particolarissima composta da un disco centrale che veniva premuto in un preciso punto a seconda della lettera scelta. Un altro esempio molto raro è costituito da una macchina da scrivere giapponese, si tratta di una Toshiba BW2113 degli anni Cinquanta che presenta i 3600 ideogrammi che compongono l’alfabeto giapponese su un rullo che va fatto scorrere manualmente.
Se potesse esprimere un desiderio quale macchina da scrivere chiederebbe?
Sicuramente una Hansenn ball in ottone, una delle macchine più ricercate al mondo. Ma rimarrà sicuramente un sogno visto che qualche anno fa è stata battuta all’asta per 130mila euro!