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La collezione di scatolette alimentari di Paolo Stefanato

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RICORDI IN SCATOLA

La collezione di scatolette alimentari di Paolo Stefanato

di Domizia Daliapubblicato su COLLEZIONARE maggio/giugno 2017

Meno diffuso di quello di scatole per biscotti o per dolciumi, il collezionismo di scatolette di latta sigillate per uso alimentare è molto originale e rivela storie e aneddoti di ricerche industriali agli albori del marketing. Ce li racconta Paolo Stefanato, giornalista milanese

Paolo Stefanato

Si contano sulle dita di una mano i collezionisti che in Italia si dedicano alla raccolta delle scatolette di latta sigillate per uso alimentare. Eppure anche queste possiedono un certo fascino, al pari delle parenti più nobili e più collezionate: quelle non ermeticamente chiuse, utilizzate spesso per contenere dolciumi. La differenza sostanziale sta nel fatto che queste ultime spesso vengono riutilizzate per conservare altro, mentre le prime vengono gettate via dopo l’uso. Paolo Stefanato, giornalista milanese, è uno dei pochi ad averle salvaguardate con cura. La sua collezione di scatolette alimentari mette insieme centinaia di pezzi provenienti da tutto il mondo. Una raccolta che ripercorre la storia di questi oggetti e della conservazione degli alimenti più in generale, sottolineando come questa innovazione sia stata una vera e propria rivoluzione.

Paolo, la sua collezione rappresenta davvero uno dei pochi esempi sul genere. Quando si è appassionato a questi oggetti decidendo di raccoglierli?

Naturalmente come Paperone ho anche io una numero uno: si chiama Contadina e l’ho acquistata nella primavera del 1987 a Chicago. Osservando questo primo esemplare mi sono reso conto di come anche queste scatolette abbiano un loro fascino oltre all’essenziale funzione di conservazione dei cibi. Guardandole con attenzione, infatti, si può notare un certo intento creativo oltre che un approccio al marketing spesso molto originale. Ho incominciato così ad approfondire l’argomento ricercandole in ogni parte del mondo.

Se pur si tratta del lato “povero” del collezionismo di scatole di latta, quelle sigillate, intatte ed antiche sono quasi impossibili da trovare?

A differenza delle scatole con il coperchio, che una volta vuotate mantengono inalterate le proprie caratteristiche, le scatolette sigillate per essere conservate devono essere svuotate del contenuto; e questo, anche se fatto delicatamente e con accorgimenti esteticamente poco invasivi – io per esempio faccio due buchi piccolissimi sulla parte meno visibile – implica una violazione della loro integrità. Ovviamente non c’è alternativa. Ma la rarità è data dal fatto che nessuno pensa di conservarle dopo averle aperte.

Mettendo sotto lente questi oggetti di archeologia industriale, come lei li definisce, ne emerge anche una storia di grande interesse: durante le Guerre Napoleoniche, infatti, i francesi hanno cominciato a capire l’importanza della conservazione del cibo per un esercito, bandendo un premio per chi fosse riuscito ad escogitare un metodo pratico e poco costoso per mantenere inalterate le proprietà nutritive degli alimenti rendendo così meno vulnerabile la propria truppa…

È stato il francese Nicolas Appert ad aver sviluppato per primo l’idea di conservare il cibo in bottiglie di vetro. Questo fragile contenitore è stato, in seguito, sostituito da lattine cilindriche in metallo dall’inglese Pierre Durand, che nel 1810 aveva ottenuto da Giorgio III d’Inghilterra il brevetto per la conservazione di cibi in vetro, ceramica, alluminio e altri metalli. Egli aveva ben intuito le potenzialità della sua scoperta, ma preferì vendere l’idea, nel 1812, a Bryan Donkin e John Hall, di Bermondsey (Londra), due industriali che aprirono una fabbrica di conserve iniziando a produrre già nel 1813 i primi cibi in scatola per l’esercito inglese.

La latta o banda stagnata – un sandwich sottilissimo di acciaio e stagno – presenta molti vantaggi…

È un materiale più leggero, più duttile, meno fragile e più economico del vetro. Inizialmente il processo di inscatolamento era laborioso perché doveva essere fatto a mano; le prime scatolette erano costose per la gente comune, con il risultato che divennero una sorta di status symbol. Ma progressivamente il successo crebbe, e con esso si allargò il mercato. Nel primo periodo le forniture principali sono state per la Marina di Sua Maestà; nel 1817 la Donkin&Hall ha venduto in sei mesi carne in scatola per tremila sterline, un’enormità per l’epoca. Nel 1820 l’esploratore Edward Parry, nella sua ricerca di un “passaggio a Nord Ovest” per l’India attraverso l’Artico, ha portato con sé scatolette di carne e di zuppa di piselli, e lo stesso ha fatto nel 1829 l’ammiraglio John Ross in una spedizione analoga. L’unico, serio problema di quei tempi era l’avvelenamento provocato dal piombo che veniva usato per sigillare le scatole.

Invece in Italia chi è stato il primo industriale ad avvalersi di questa invenzione?

È stato Francesco Cirio ad aprire la prima fabbrica di piselli in scatola nel 1856, a Torino, seguita nel 1875, dal primo impianto campano per la lavorazione industriale dei pomodori.

Quali sono le loro caratteristiche estetiche?

Limitandoci alle scatolette litografate – tralasciando quelle con le etichette di carta, meno brillanti e dai colori più deperibili – va osservata la prevalenza di colori quali il rosso e il giallo affini ai cibi naturali e una netta minoranza di scatole stampate in verde, blu o nero. I disegni più frequenti si riferiscono al contenuto, e quindi pesci, pescatori, barche, velieri, ma ci si può imbattere nell’illustrazione della fabbrica, nell’intento forse di stupire il consumatore con le dimensioni e la solennità degli edifici; oppure in figure di fantasia – bambini, ragazze, principesse, ma anche antichi romani o personaggi letterari – per entrare in sintonia con qualche desiderio subliminale delle massaie, e per comunicare qualità e affidabilità.

Tra le scatolette che possiede quali sono quelle più particolari e divertenti capaci di coniugare creatività e marketing?

Una è la scatoletta di sardine sott’olio, fabbricata in Francia, preparation à l’ancienne, depuis 1903 porta il marchio Le Dieux – gli Dei – illustrato con un banchetto dove, tra gli altri si riconoscono Giove, con la corona, Nettuno, con il tridente, Marte, con elmo e lancia, Mercurio, con il caduceo. Davanti a ciascuno, un piatto con tre sardine. Una scritta recita, in francese: “Gli dei si nutrivano di sardine e d’ambrosia, Iliade, canto 25mo”. Una citazione di Omero? Macchè, l’Iliade si compone di 24 canti. Evidentemente quell’imprenditore aveva deciso che per conquistare le donne al mercato il metodo più efficace doveva essere un apocrifo del poeta greco. Quale incredibile macchinazione intellettuale!

Può farci un altro esempio?

L’altro esempio è italiano e tutti lo possono tuttora verificare negli scaffali dei supermercati. Si tratta delle “Alici in salsa piccante vera marca Rizzoli, Parma”, la cui scritta su fondo oro è uguale a sé stessa dal 1906, prima della Prima Guerra Mondiale – alcune scatolette furono trovate anni fa in una trincea–; tre gnomi reggono un cartiglio blu con scritto: “Mangiar bene”. Piccolo, quasi invisibile è posto in alto il motto latino “Ante lucrum nomen” ovvero prima il prestigio del nome e poi il guadagno. Tre parole che raccontano che cosa fossero un tempo l’onore, la nobiltà d’animo, il senso delle cose, il primato dei valori: con la solennità di un’iscrizione in un Pantheon. Invece è una semplice, modesta, ma dignitosa scatoletta di acciughe. Fabbricata per essere distrutta

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